Maggio 14, 2024

UNA POESIA ESOTERICA

come tutte le altre, come sempre
c'è una parte
che andrà perduta a molti,
e una parte che andrà perduta a tutti,
e poi la parte che state leggendo
che parla probabilmente di qualcosa
- vi parla
nella vostra lingua
di qualcosa -
che non lo riguarda
e non mi riguarda e in fondo
c'è la parte che conta, che dice
- forse - qualcosa
all'unico parlante in vita
divinità minuscola, il culto del momento
a cui sto parlando
in questo momento
per dire nella sua lingua qualcosa
per dirti questa cosa
che come te: è ridicola,
è clamorosa.

Protetto:

novembre 17, 2015

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giugno 20, 2015

Vivere così non è sempre difficile.

Con gli abissi a due passi mi basta
meno che agli altri (sul serio,
basta guardarmi).

È sempre difficile, invece
separare le cose. Adesso,
per esempio, tutta questa morte
potrebbe essere qui
per me oppure per l’altra
(ma scherzo, lo so
che non c’è nessun’altra).

Allora penso, per raccapezzarmi:
forse il pianto è legittimo
mentre i graffi sul petto
sono un po’ troppo.
Mi sembra di aver trovato un criterio.

Però, voi lo direste legittimo
piangere per niente? Oppure,
se non è niente (l’opposto)
voi direste che è troppo
graffiarsi il petto?

Questa è la parte difficile.

Vivere così sembra una religione.

Invece è un dato oggettivo
che questa voce non mi appartenga: la mia
è in ostaggio e prega
e non vuole trattare, e io cerco di guardare
le cose con occhi diversi
(«lo sai che tutto è già successo»
«è inutile, ma non è mortale»). I miei
li vedo: spalancati sul vuoto
chiedono aiuto.

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aprile 8, 2015

Mettiamo che sia il mare
un posto che non si può abitare
– il fracasso delle onde che si spaccano
caparbie sulle pietre
si sfracellano di testa per cercare
la morte nell’impatto, ostinate
per rabbia o per la forza
irreprimibile: il potere
rovente che le gonfia. Mettiamo
essere io la testolina
distante che galleggia, persa
nella bonaccia e già spacciata
nella furia. E mai scordare,
mai, che non c’è intento,
né voce ad invocare
la mia morte; non c’è intenzione. Il corpo
sugli scogli disossato è conseguenza
di scontri sotterranei dei giri
della luna, dei moti che governano le onde – la forza
rovente che le gonfia – e leggi sismiche
e gravitazionali che confliggono e non parlano
una lingua umana: ha inizio
una catastrofe peggiore nell’attimo
in cui pensi di trattare
con le maree. Decade il verbo
dinanzi a ciò che esiste
in assenza del verbo; pregando
inviti la morte.

Ora, soppianta la stanchezza
il desiderio di vita incrollabile
il tremito nei muscoli
è costante e quasi cedono
le braccia, le gambe: ma ancora quando sale
la marea sono più in alto
degli astri che la chiamano, sfiorano
le dita dei miei piedi quando scende
le ossa dei naufraghi sul fondo
e la pelle di belve preistoriche
e mettiamo che sia troppo:

[Se c’era guerra nel ventre
del suo mondo, il posto
più sicuro era lontano
da me (resta distante e ferma
ti prego, all’orizzonte) ma lo stesso lei veniva,
nel suicidio sanguinario delle onde,
come una martire, come una bestia
ammalata della riva, come un cane.
Sembrava proprio
fossi io restando immobile
a tritarle le ossa
a schiantarmela contro: nella tempesta
veniva da me come al martirio.]

Allora mettiamo che sia il mare
un posto che non si può abitare
che mi dicano, infine: vieni via.
E allora, supponiamo che cammini,
due pugnetti d’acqua nelle mani strette,
senza voltarmi, senza quasi pensarci.
Mettiamo la pelle
asciutta che guarisce e si colora
una casetta lontana dalla costa
un tavolo in cucina e sul tavolo dei fiori
recisi dentro a un vaso
e un piattino d’acqua
salata, briciole di pane.

Come lo chiamereste, voi? Lo chiamereste
mare? Lo direste voi
che sottostavo ai comandi diretti
dei pianeti, la pressione del mio sangue
che oscillava con i flussi magmatici
abissali, che udivo
le confessioni esoteriche dei vortici,
che mi era dato di conoscere la lingua
degli amanti annegati? Mi amereste
lo stesso, lo direste
che ho saputo il mare?

Vorreste ascoltare i racconti
di quando nel suicidio
disperato delle onde
nel tumulto che non sente il pianto
né conosce argomento
io tendevo la mano? E dunque
potrei dirti di restare – ora – soltanto
per le tende chiare
per la luce che entra di taglio
nello spazio che toglie il mio corpo
ai flutti e alle stelle,
per un piatto di sale?

marzo 29, 2015

Sooner or later, whatever you’re waiting to hear will get itself said.
It doesn’t matter what it is: I love you or I’ll never speak to you again.
It all gets said, often in the same night.

Louise Glück, from Poems

marzo 27, 2015

Quando torno verso casa alle tre del mattino
un po’ sbronza un po’ triste
e mi sfrecciano accanto i rari autobus notturni
– all’interno i camerieri e i venditori di rose
assonnati, sfiniti, gli spacciatori di erba –
la guida pericolosa degli autisti annoiati che inchiodano ai semafori
stanchi più di me, come da bambina
fischio agli uccelli che cantano a quest’ora,
malinconici; e forse non sono così triste, e loro
fischiano in risposta. Incrociando qualche passante
sorrido le mie scuse.

Però non sono sicura che davvero mi rispondano
forse hanno solo voglia di cantare
o bisogno, forse fanno cose incomprensibili
da uccelli.

E anche se mi rispondono, non sarà certo
nella stessa lingua. Loro non hanno idea
di cosa voglia dire essere una ragazza
che torna a casa di notte
un po’ triste un po’ sbronza
sulla prenestina ovattata e sconnessa,
l’odore degli orti al di là del muro.

Questo è un pensiero triste. Intendo,
che non mi rispondano. Magari
io immagino la malinconia
nei loro canti di gioia, di corteggiamento.

Eppure, penso, sono pur sempre la ragione
del mio fischiare. È così che va il mondo.
È per loro che sono questa ragazza
che canta alle creature nei nidi
sono per loro i miei dialoghi
immaginari.

Forse non sono così triste. Ma spero,
se non possono capirmi,
che almeno non mi sentano.

(retroscena) n.5

marzo 6, 2015

La verità chiedetela
ai piatti scombinati che si asciugano, alle luci
di natale che incorniciano
i vetri del balcone e i primi lampi
di bel tempo. Della masturbazione
sanno ogni cosa i libri, i quadri
alle pareti; i miei minuscoli
preziosi animaletti impolverati
sulle mensole
conoscono i dettagli.

Di questi anni
potrò raccontare tre lavori
la mia faccia ricomposta
gradualmente, la mia buona
condotta, il mio rigore, il corso
tanto semplice dei giorni, trascorsi
coi capelli in ordine a spiegare
il latino ai liceali. Le notti
temperate e ferme.

Ma la verità chiedetela alle piante
morte di vento, agli scontrini della farmacia, alla cronologia
del browser, ai segni che si scavano e ricalcano
le ombre accanto al naso, al segnalibro
immobile a tre quarti del romanzo
cominciato a dicembre. Le cose
conoscono i dettagli

di questi anni,
quando tacere un nome era stremante
quanto celare il proprio,
non dire una preghiera richiedeva
lo sforzo di un digiuno. Acquietarsi
dissipava energia quanto una lotta,
puniva il corpo
come negarsi il pane.

marzo 3, 2015

Sono sempre i sogni del mattino
a generare il pericolo.

Dopo, avanzerai su pavimenti inclinati
per un giorno, forse due
forse più a lungo.
Dalla stanza al bagno alla cucina
una salita di marmo
una pendenza di marmo oppure
restare distesa lì in fondo
per un poco, dove le mattonelle incontrano
la carta da parati in un angolo acuto.

Oppure, vestirsi, girarsi
i capelli sulla testa
respirare con ostinazione.

Viene sera, che sbiadisce i segni
i caotici frammenti onirici
sbavati in presentimenti

dalla cucina al bagno alla stanza
una lastra di marmo, oppure
una poesia che non vale niente
scritta soltanto per ammaliare le voci
e zittirle, un momento. Senti,

senti cosa ti racconto: questa mattina
era qui, mi ha riempito
le braccia di fogli, mi ha regalato una foto
in cui non ho i denti.

Una discesa di marmo, ma
ho capito, davvero
ho capito. Soltanto un’altra sigaretta
per domare il terrore;
solo un altro minuto.

Protetto: (teoria) n.1

febbraio 20, 2015

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